Il ruolo e la condizione della donna africese nella storia di Bruno Palamara

Mamma, è meglio nascere capra che donna a Terrarossa!”. Queste amare, tristi e drammatiche parole pronunciate da “Cicca”, nomignolo di Francesca, personaggio di spicco di una delle prime opere di Saverio Strati, “La Teda”, romanzo ambientato proprio ad Africo (“Terrarossa”), dove il grande scrittore di Sant’Agata del Bianco si reca come giovane muratore nella metà degli anni trenta, ci spingono ad approfondire la conoscenza sullo stato e le condizioni della donna africese nel corso della sua storia, dal momento che su di lei e sul suo ruolo poco o niente si è scritto.

Le toccanti parole di “Cicca” rappresentano ed esprimono la sintesi della condizione di frustrazione e di grande subalternità in cui da sempre è vissuta la donna africese nel corso dei secoli, retaggio di una mentalità patriarcale che vede la donna “solo” in qualità di moglie e di madre, seguendo, quasi pedissequamente, quella atavica e bimellenaria norma di romana memoria del “domi mansit et lanam fecit!” (“rimase a casa e filò la lana!”), famosa locuzione latina che si legge in alcune iscrizioni funebri per indicare ed esaltare le virtù domestiche della donna, dedita alla famiglia e ai lavori di casa.

E, in effetti, analizzando il periodo anni trenta-quaranta del secolo scorso, di cui abbiamo contezza per averlo direttamente appurato dai veritieri racconti dei nostri nonni, in Africo, come, d’altronde, anche negli altri centri della zona, fin dai primi anni di vita della bambina l’educazione è orientata ad inculcarle i sacri valori della famiglia, al fine di farla diventare una brava donna di casa e una buona madre di famiglia, riducendo il suo ruolo a quello di “angelo del focolare”  e “curatrice della prole”.    

Cresce, così, prima sotto la stretta tutela del padre, al quale deve cieca ubbidienza, poi, abbandonato l’ambiente familiare con il matrimonio, passa sotto la “giurisdizione“ del marito, al quale si rivolge con quel caratteristico “voi” che contrassegnerà il loro rapporto per tutta la vita, comprensibile, ove si pensi che il matrimonio tra i due giovani è, generalmente, deciso dai genitori (“Comu volìti vui, patri!”) e celebrato a dispetto dei loro desideri e dei loro sogni e senza alcuna loro reciproca conoscenza. 

A quei tempi è, infatti, inconcepibile che maschi e femmine possano frequentarsi e stringere amicizia, tanto che una giovinetta che sia stata sorpresa a parlare con un giovane è considerata poco seria. La donna esce di casa solo se è accompagnata da una persona anziana o dai fratelli più piccoli. Certo, non mancano storie d’amore al di fuori di questi schemi, innamoramenti che portano a rocambolesche “fughe d’amore” da parte di chi si è innamorato senza il consenso delle rispettive famiglie, ma sono casi isolati che fanno solo “parlare” il paese per un po’ di tempo. 

Le giovani di oggi si metterebbero a ridere, venendo a conoscenza di termini quali “’ccippu” (ceppo) o “’mbasciaturi” (ambasciatore), i due vocaboli che indicano, in epoche diverse, l’unico mezzo attraverso cui viene comunicata la richiesta di matrimonio da parte del giovane pretendente. 

La dignità della donna viene quasi sempre calpestata, anche nel periodo più delicato della sua vita sentimentale: se, infatti, oltrepassa i vent’anni di età ancora nelle vesti di nubile, viene, di fatto “bollata” come “zitella”, termine usato in senso dispregiativo in un contesto socio-culturale in cui la naturale aspirazione della donna, non monacata, è il matrimonio. E’ come volerle addossare una colpa per il fatto che non sia stata capace di “trovare marito”, dando l’idea di un suo fallimento esistenziale. 

Se poi, sposata, risulta sterile e non può, “per natura”, regalare al marito alcun figlio, magari maschio che possa perpetuare la discendenza, allora viene guardata con occhi malevoli sia dai parenti (“ahi, la suocera!”) che dal marito stesso. D’altronde, per questo ambiente fare figli non è il suo compito primario, lo scopo della sua stessa esistenza? 

Certo, la vita per la donna africese deve essere stata dura, sempre a dover dire “sì!”, perché chi decide è sempre l’“omu”, “u masculu”: la donna deve essere, “necessariamente”, guidata, in quanto ritenuta “inferiore” per costituzione e per fisico. D’altronde, non può dimostrare né personalità né “carattere” né, tantomeno, esprimere opinioni, perché solo l’uomo può esporsi, così come recitava quel famoso proverbio: “A fìmmina ’ndàvi i capiddhi longhi e ’a menti curta!” (“La donna ha i capelli lunghi e il cervello corto!”). 

Agli occhi della gente solo l’uomo “lavora”! Egli esce all’alba per il suo lavoro di contadino, di bracciante o di pastore e ritorna al tramonto o a tardi sera, magari dopo una rilassante sosta presso la locanda del paese. In effetti, però, è la donna che, giornalmente, sgobba e fatica di più. In una parola, è lei che ha il “pondo” della casa e le fortune della famiglia dipendono, spesso, essenzialmente da lei, come diceva quel detto popolare: “’A fimmina faci e ’a fimmina sfaci ’a casa!”. 

Le stesse emblematiche foto scattate ad Africo nel 1948 da Petrelli per conto de “L’Europeo” la riprendono intenta nelle tante e varie occupazioni giornaliere che, in maniera cruda e indiscutibile, testimoniano quanti “lavori” ella va a svolgere nel corso della giornata, senza, per questo, acquisire alcuna ricompensa, che sia materiale o morale, neanche da parte di quell’uomo che le vive accanto, che, quasi, sorvola sul peso di tali incombenze.

Eppure, è lei che, scalza e a piedi nudi, giornalmente si reca alla fonte di contrada Viaci o di contrada Dorgada, a prendere l’acqua! E’ lei che si reca al torrente “Aposcipo” a fare il bucato per tutta la famiglia! E’ lei che usa il forno e fa il pane! E’, ancora, lei che lavora al telaio, fila la lana e la ginestra, tesse, accudisce i figli, a volte portandoseli appresso anche in tenera età, perfino quando va in campagna ad aiutare il marito. E non è raro che metta al mondo un figlio proprio nei campi, senza alcuna assistenza. 

Ma, soprattutto, la donna africese sa mantenere e tenere alto e incontaminato l’onore della famiglia! Francesco Sofia Moretti, medico e scrittore di Taurianova, agli inizi del secolo scorso nel 1912 su “La Domenica del Corriere” la esalta, affermando che “fra le donne d’Africo è sconosciuta la disonestà per vizio, e i matrimoni avvengono quasi esclusivamente fra abitanti del paese”.

Poche sono le occasioni di svago a lei riservate, una delle quali è quella rappresentata dal ballo. Ma pure nella “tarantella”, il ballo più praticato, la donna ha, ancora una volta, un ruolo subalterno nei confronti del maschio, in quanto è lui, come sempre, che conduce il “gioco”, anche se, spesso, è lei che fa un “figurone”, quando il suo fisico prorompente riesce a sovrastare nettamente quello del “rivale”, divenendo la “regina” del ballo

La donna africese è donna coraggiosa e tenace, sempre pronta a scendere a fianco e a difesa del suo uomo e della sua famiglia. Famosi ed eroici i “fatti del ’45” accaduti in quel drammatico giorno di San Sebastiano del 20 gennaio 1945, quando, tralasciando ogni faccenda domestica, da protagonista e, in massa, partecipa insieme agli uomini a quella intensa e indimenticabile giornata di lotta popolare che porterà al lancio di sassi, fucilate e, persino, bombe a mano contro la Caserma dei Carabinieri, costringendo i suoi militari ad una precipitosa e rocambolesca fuga verso Bova. 

Per non parlare, poi, dello spirito di sacrificio e di abnegazione dimostrato nelle grandi calamità che nel corso dei secoli hanno colpito il paese, come avvenuto nel terremoto del 1783 o in quello più recente del 1908, contribuendo in maniera poderosa al mantenimento dell’unità familiare.

Qualcuno, e non siamo certo noi, potrebbe eccepire che non si è mai ribellata a questa vita fatta solo di grandi sacrifici e di poche gioie. Il fatto è che la donna africese conosce solo “quella vita”! Non chiede diritti, perché non conosce diritti (“E’ stato sempre così!”)! Non conosce il treno, perché non ha mai visto un treno! Non conosce il mare, perché non ha mai visto o toccato il mare! “Non conosce”, perché non si è mai scolarizzata! In una parola, le manca la “conoscenza”: senza di essa rimane, inevitabilmente, statica e prigioniera di barriere insormontabili. 

A tutto questo aggiungiamo l’isolamento plurisecolare cui da sempre è condannato il paese per la sua assurda ubicazione in mezzo a monti e colline (“il più isolato paese dell’Aspromonte”), privo di qualsiasi struttura stradale che possa collegarlo in qualche modo con il mondo “civile” e capiremo la sua atavica e triste condizione di donna rassegnata e immersa nel passato senza alcuna speranza di futuro migliore. 

Ma, come nella Storia spesso accade, da un evento altamente negativo e devastante, quale è stata l’“Alluvione del 15 ottobre 1951”, nasce e si sviluppa, inevitabile e naturale, un percorso che cambierà completamente, e in positivo, il corso e la qualità della sua stessa esistenza, perché se da un lato quella traumatica tragedia, umana e ambientale, porta, per tutti, lutti e sacrifici d’ogni genere, dall’altro, e per la donna africese in particolare, rappresenta l’inizio di un iter che, attraverso varie vicissitudini, anche travagliate, la farà pervenire al suo attuale “status” di “donna al passo con i tempi”

Il decennale esodo della popolazione, profuga nei vari centri della provincia reggina, da Palmi a Gambarie, da Reggio Calabria (Archi, Trabocchetto, Lazzaretto…) a Bova Marina (Seminario …) e la relativa discesa in marina aprono alla donna africese le porte di un mondo nuovo, portandola, per la prima volta, a confrontarsi con il mondo esterno e facendole prendere coscienza del suo anche “essere sociale”.

Le incessanti iniziative di lotta per il nuovo paese la vedono partecipare attivamente, e con efficacia, agli scioperi di quegli anni problematici: si dispone sempre in prima fila al fine di proteggere gli uomini dalle prevedibili manganellate delle forze dell’ordine, spesso dispiegate in tenuta bellica. Ancora oggi si ricordano avventurosi episodi di cui rende attiva e agguerrita protagonista di quel mitico periodo di lotta di popolo con anche denunce e fermi di polizia a suo carico, sopportati con estrema fierezza. 

Il paese nuovo, costruito sulla costa, in marina, apporta una grande e sana ventata di novità nella vita di una popolazione dalla mentalità tradizionalmente rivolta ancora al passato. 

La donna africese usufruisce “in primis” dei benefici apportati dal nuovo corso che prende il paese, non a caso chiamato Africo Nuovo. La casa, spaziosa e accogliente, gli elettrodomestici e gli altri moderni marchingegni, frutto del “boom economico” di quegli anni, affrancano la donna africese dalle grandi fatiche giornaliere del passato. Non va più alla comune fontana del paese. Ora ha l’acqua corrente in casa!  Non porta più in testa fasci di legna per accendere il focolare. L’abitazione è dotata di energia elettrica! Non si reca più alla fiumara per lavare i panni. Ora, a casa, ha la lavatrice! Radio e televisione ora le portano in casa il mondo intero, informandola e “acculturandola”!

Comincia a vestire alla moda! “Scopre” e indossa i pantaloni, simbolo dell’orgoglio e della predominanza virile! Inizia a instaurare un nuovo e diverso rapporto con i suoi giovani coetanei e, finalmente, è libera di scegliere l’uomo della sua vita, mettendo definitivamente alla porta “’ccippu” e “’mbasciaturi”

In questo importante periodo carico di grandi cambiamenti e novità - “anni sessanta-settanta” - varie sono le esperienze di vita intensamente vissute dalla donna africese che concorrono in maniera determinante alla sua crescita personale, umana e politico-sociale. 

Unica e irripetibile e, per certi versi, per lei esaltante, è la non mai dimenticata “stagione delle gelsominaie”! Sentiamo ancora nelle orecchie il loro scanzonato vociare alle due di notte nelle piazze del paese, impazienti di salire su quei camion di fortuna che le avrebbero portate nei campi di raccolta del gelsomino nei vicini centri di Brancaleone e di Bruzzano. 

Un lavoro duro e faticoso, con la schiena ininterrottamente piegata e i piedi nell’acqua, effettuato sempre in un clima cameratesco. La gelsominaia africese dà tutta sè stessa in questo lavoro, ben consapevole che esso rappresenta, nella maggioranza dei casi, l’unica fonte di reddito per la famiglia. Che fatica! Quanto impegno, tenendo conto che il lavoro viene pagato, rigorosamente, a peso e che per fare un chilo di gelsomini servono diecimila fiorellini! Lei riesce a raccogliere, mediamente, non meno di dieci chili, la più veloce, perfino, dodici, tredici chili, di quel delicato e profumato fiore! 

Per di più, partecipa in maniera attiva agli scioperi per il miglioramento delle condizioni di lavoro, formando e plasmando quel carattere battagliero che dimostrerà, in seguito, in tutta la sua positività, nelle già imminenti rivendicazioni di piazza di quegli anni a venire. 

Non meno importante è l’altra esperienza da lei vissuta in quegli anni di sistemazione e di adattamento alla nuova realtà del ricostruito paese. Colonia, Monaco di Baviera, Wolfsburg per tanti sono solo nomi di città tedesche. Non per la donna africese che, a sentirli, ricorda uno dei più difficili periodi della sua vita. Il paese, attanagliato da una dilagante e drammatica disoccupazione, vede partire con la valigia di cartone in mano verso città straniere centinaia di lavoratori, padri di famiglia e giovani ventenni, in cerca di una occupazione che possa alleviare le già misere condizioni economiche delle famiglie. 

La donna africese prende decisamente in mano le redini della casa, ergendosi risolutamente a severo custode dell’unità familiare, vestendosi in tutto e per tutto da capofamiglia e gestendo al meglio l’educazione dei figli e…le puntuali mensili rimesse bancarie provenienti dall’estero, utili e necessari per il decoroso mantenimento della famiglia. 

E’, però, la scuola l’elemento principe, lo snodo, il punto di svolta e di non ritorno dal quale spicca il volo l’emancipazione della donna africese, il suo affrancamento da un passato che l’ha vista sempre soccombente! In quegli “anni sessanta”, portatori di grandi e importanti novità in tutti i campi, ella, infatti, riesce finalmente a strappare con i denti a genitori difficili e tradizionalisti la possibilità di scolarizzarsi, abbattendo definitivamente quell’atavica teoria maschilista in quegli anni ancora dominante: “La donna deve stare a casa ad accudire i figli!”. 

E così frequenta regolarmente le scuole del paese, prima la Scuola Media, poi le Scuole superiori, soprattutto “Le Magistrali”. Si diploma e si laurea. E’ maestra, è avvocato, è architetto, è medico!

Oggi, venti anni dopo l’inizio del terzo millennio, la donna africese può considerarsi appagata, se non, addirittura “realizzata”: lavora, è economicamente indipendente, viaggia, decide, è libera nel modo di vivere e di pensare, può scegliere fra carriera e famiglia, essere “donna di casa” o “donna in carriera”! Non per niente si fa apprezzare in ogni campo, dal sanitario all’amministrativo, dal giudiziario al campo educativo, facendo giustizia di tutti gli archetipi e stereotipi negativi che, immeritatamente, hanno accompagnato la sua storia.

A noi piace terminare queste “poche” righe, citando il grande William Sheakespeare: “La donna uscì dalla costola dell’uomo, non dai piedi per essere calpestata, non dalla testa per essere superiore, ma dal lato per essere eguale, sotto il braccio per essere protetta, accanto al cuore per essere amata!”

Bruno Palamara

bruno-pal @libero.it 

Autore di: 

- “Africo dalle origini ai nostri giorni. Una storia millenaria” Arti Grafiche Edizioni, Ardore, 2003 

- “Il Cognome. Origine, sviluppo, curiosità. Laruffa Editore, RC, 2007 

- “Africo. Cognomi e ritratti” Laruffa Editore, RC, 2011 

- “Don Antonino Pelle Superiore del Santuario di Polsi” di Pelle-Mollica-Palamara 

     Edizioni Nosside, Ardore, RC, 2016