Africo e Casalnuovo memoria storica a rischio

Si è riempita un’intera biblioteca con articoli e libri su Africo e Casalnuovo, ma non si è mai approfondito esaurientemente sulla moltitudine di persone o figure positive che hanno fatto la storia dei due paesi, come se si avessero delle remore a scoperchiare il loro passato. Conoscere i personaggi che ci hanno preceduto non deve essere inteso come appagante o morbosa curiosità fine a se stessa, ma, piuttosto, deve essere recepito come stimolo, affichè, ogni singolo individuo, temprato dal loro encomiabile esempio, agisca e concorra al bene supremo della propria comunità. Ognuno di questi personaggi incarna e ci racconta un “pezzo” di società, un modo di pensare, la dura fatica del vivere quotidiano, una specifica fase della nostra storia paesana, tutta memoria storica che non può e non deve essere perduta o trascurata, perché un popolo senza di essa è come un albero senza radici.

“La nostra è una civiltà che scompare e su di essa non c’è da piangere ma bisogna trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie”. Questa meritoria esortazione di Corrado Alvaro, contenuta in “Gente in Aspromonte”, noi, per Africo, l’abbiamo integralmente fatta nostra, cercando, nel corso della nostra maturità, con pubblicazioni e articoli di giornale di analizzare, quasi vivisezionandola, la memoria storica del nostro paese, con il primario scopo di conservare e trasmettere alle generazioni prossime quel ricco e prezioso patrimonio storico e culturale lasciatoci in eredità dai nostri avi.


L’uomo è figlio del proprio passato e, come dice anche il poeta africese Giovanni Favasuli, “dovrebbe difendere la propria identità culturale, affinché di essa alle generazioni venture rimanga indelebile orma nei manufatti, nelle tradizioni, nella poesia, nella musica e nel canto”.
Africo e Casalnuovo sono andati perduti, ma grande sarà la nostra colpa se non ci adoperiamo, affinché non cada nell’oblio più triste la loro memoria storica, che per la verità, tutti quanti noi abbiamo in questi anni, colpevolmente, trascurato, pensando, a torto, che c’è sempre l’altro a tenere accesa la fiammella dei ricordi. In tal modo, si è arrivati, facilmente, al “paradosso” dei nostri tempi, per cui l’africese presume di conoscere la storia del proprio paese, crede di ricordarne fatti e circostanze, d’altronde, appresi solo dal parziale racconto di nonni e genitori, ma se poi gli domandi qualcosa di particolare, raramente risponde in maniera esaustiva.
Tutti noi conosciamo, a ragione, quanti furono i re di Roma e, tranquillamente, snoccioliamo i loro nomi; ricordiamo, giustamente, con facilità scrittori, poeti e artisti vissuti secoli fa; abbiamo in memoria i più importanti personaggi storici nazionali; sappiamo il nome di chi è stato il primo uomo a toccare il suolo lunare o, per restare “in loco”, conosciamo la “Villa Romana” di Casignana o i famosi “Bronzi di Riace”.
Non conosciamo, invece, i nomi dei nostri nove eroi (tre di Africo e sei di Casalnuovo), tra i quali spicca quello di una giovane donna di diciotto anni, Annunziata Sculli (1 aprile 1933), tragicamente caduti in quella fatidica alluvione del ’51, e verso i quali manca, ad oggi, quell’opera di consacrazione che la loro triste fine avrebbe meritato.
Non ricordiamo più la grande e meritoria opera civile e sociale di quel Giuseppe Morabito (17 giugno 1864), il Sindaco più longevo di tutta la storia africese, capace di ben governare il comune di Africo per ben diciassette anni dal 1905 al 1927, fronteggiando i due terribili terremoti del 1907 e del 1908 con un tale disinteressato attivismo (presta la sua opera di volontariato anche nella Reggio Calabria colpita da quelle tremende calamità), da meritarsi il riconoscimento, da parte delle istituzioni statali, di un Diploma di Benemerenza e di una Medaglia di bronzo al valor civile. A lui si riconosce, inoltre, il merito di avere, per primo, già nel 1910 avanzato l’ipotesi del trasferimento dei due paesi in un posto più sicuro. Consapevole, infatti, della loro critica ubicazione, il Sindaco Morabito si batte con forza, anche se invano, al fine di ottenere lo spostamento di Africo in Contrada “Carruso” e di Casalnuovo in Contrada “Scrisà”, confinante con Bruzzano, cui era, in origine, amministrativamente legato.
Né abbiamo memoria del grande sacerdote che è stato Don Antonino Pelle (28 gennaio 1899), parroco nella Casalnuovo degli anni venti di una comunità che viveva ai limiti dell’inverosimile. Vero uomo di chiesa, don Antonino è stato un prete tra le gente e per la gente, “un prete di strada”, come, più opportunamente, si dice oggi, un prete “al servizio di Dio e del prossimo” che si cala, spontaneamente, nella triste e cruda realtà di un paese privo di ogni bene. Sensibile alle istanze e alle ansie dei suoi parrocchiani, afflitti da mille problemi di sopravvivenza, l’Arciprete vive dieci anni di intenso e proficuo apostolato laico e pastorale (1925-1935), donandosi “totus” alla popolazione casalinovita, assistendola e curandola nello spirito, nel corpo e nella mente. Per la gente di questo povero e isolato paese Don Antonino è tutto: padre spirituale, medico, (nelle necessità, addirittura, opera), infermiere, confessore, perfino conciliatore. Si lega talmente a Casalnuovo da rifiutare altre più confortevoli sedi parrocchiali, preferendo rimanere ad occuparsi e preoccuparsi di quelli che, in futuro, anche quando diviene, per ben quarant’anni, Priore del Santuario di Polsi, chiamerà sempre: “I miei paesani!”. Stimato come “il buon parroco”, persino, da quell’altro grande benefattore di Africo che risponde al nome di Umberto Zanottti Bianco, don Pelle ha anche il grande merito di aver avviato agli studi molti giovani di quella difficile epoca, primo fra tutti quel “galantuomo” di don “Ciccillo” Favasuli, recentemente scomparso, sempre a lui rimasto grato.
Non rammentiamo più neanche Giulio Colombini (29 agosto 1913), il primo medico “africoto” che, fin già nel periodo prebellico, si distingue per competenza, umanità e abnegazione in un paese come Africo che tanto in quel delicato periodo ne ha bisogno. Di lui parla Tommaso Besozzi nello storico servizio pubblicato nel 1948 su “L’Europeo”, quando, testualmente, afferma: “Ad Africo c’è un medico, il guaio è che vive a Roma, dovendo frequentare le cliniche universitarie per un corso di specializzazione”. E’, esattamente, il “nostro” Giulio, il quale proprio in quel periodo studiava nella Capitale per specializzarsi in ginecologia, settore della medicina in cui ha poi operato con grande perizia.
Altri ancora meriterebbero di essere liberati dall’oblio del tempo, degni di una pur che minima gratitudine. Siamo così diventati, nel tempo, una comunità “smemorata”, quasi irriconoscente verso persone che“spendendosi” per il proprio paese, hanno segnato, in positivo, parte della nostra storia cittadina, lasciandole, colpevolmente, nel dimenticatoio, coperte dalla polvere del passato. Tutto ciò lo si rileva dalla stessa odierna odonomastica urbana, che è stata, “in toto”, dedicata a persone e personaggi che con l’identità e gli interessi della comunità africese non hanno alcun minimo legame. Quanto sarebbe bello, e più utile, che i giovani d’oggi e le generazioni future, percorrendo le vie del paese o, magari, sostando nelle piazze cittadine, potessero, virtualmente, “incontrare” e “dialogare” con i molteplici protagonisti della millenaria storia africese!
Non basta partecipare, annualmente, ai pellegrinaggi del 18 Ottobre (“Commemorazione Alluvione ’51”) o del 5 maggio (“San Leo”), per comprovare l’amore per il proprio paese o per onorare i propri avi! Sarebbe, invece, più opportuno attivamente adoperarsi per il recupero dei due borghi scomparsi, oggi divenuti ruderi invasi dalla vegetazione, ma anche, ahinoi, “un’enorme e unica stalla dove le vacche allo stato semibrado hanno preso il possesso”, come hanno ben rilevato in una loro pubblicazione del 1999 F. Bevilacqua e A. Picone.
E in questa ottica ci duole dover rimarcare le gravi manchevolezze delle varie amministrazioni comunali succedutesi dagli anni ’60 in poi, che non hanno mai saputo cogliere le grandi opportunità politico-amministrativo-finanziarie del tempo connessi al recupero e alla valorizzazione dei due paesi alluvionati, soprattutto per la sempre ipotizzata, e mai realizzata, strada di collegamento tra Africo Nuovo e Africo Vecchio, l’unica e sola soluzione capace da una parte di riannodare e mantenere il cordone ombelicale con il passato e dall’altra di garantire la vivibilità del territorio abbandonato, tale da renderlo fruibile, sostenibile e godibile in tutto il suo intrinseco significato letterale. Il territorio montano è stato, invece, completamente abbandonato a sé stesso dalle istituzioni pubbliche con tutto il susseguente depauperamento ambientale e paesaggistico di cui tutti noi oggi ci doliamo, lasciando il compito, di per sé istituzionale, all’autonoma e libera scelta delle varie Associazioni locali, protagoniste, loro sì, di meritorie e significative iniziative rivolte al recupero e alla vivibilità dell’antico territorio.
Certo, comprendere “Africo” non è facile, né lo sarà mai nella sua interezza, se non si parte dalla consapevolezza che la sua è la storia parallela di due distinti borghi, Africo Vecchio e Casalnuovo d’Africo, uniti solo nella forma, ma, in realtà, nei secoli divisi e contrapposti per storia, origini e tradizioni, tali da fare di questi due paesi i nostrani guelfi e ghibellini di fiorentina memoria. Africo e Casalnuovo erano, in effetti, due paesi autonomi, ognuno con una propria storia, amministrativamente assoggettati, per secoli, chi a Bova, chi a Bruzzano e solo nel 1815, forzatamente, per decisione burocratica governativa (in conseguenza della famosa “legge napoleonica” del 1806), uniti prima in un unico comune, per poi definitivamente diventare, agli inizi del 1960, un “unicum”, un solo paese, “Africo Nuovo”, sintesi delle due comunità (“africoti”-“tignanisi”).
Unico e caratterizzante episodio di “fratellanza” che la storia ci regala, peraltro successo in epoca di distinta autonomia civica, è quello che va sotto il nome di “eccidio francese” del 1807, quando nel febbraio di quell’anno Africo è occupato e messo a ferro e fuoco da due compagnie di volteggiatori francesi, in lotta con i borbonici per il possesso del territorio aspro montano, e autori di crudeli atti di violenza nei confronti della popolazione inerme. Davanti a questa così tragica situazione, i tignanisi di Casalnuovo, tralasciando ogni antica rivalità, accorrono in massa, senza alcun indugio, in soccorso dei “cugini africoti”, aiutandoli a sconfiggere sonoramente, anche con eroici scontri corpo a corpo, gli aggressori francesi.
Indubbiamente, Africo ha una storia difficile, storia di gente povera e laboriosa, ma anche fiera e tenace, mai arrendevole, storia di sacrifici e di terremoti, una storia complessa e complicata, il cui punto nevralgico è rappresentato dalla storica alluvione del 18 Ottobre 1951, vero e proprio spartiacque di due mondi diversi e contrastanti: Africo “prima dell’alluvione”, Africo “dopo l’alluvione”.
La prima parte è rappresentata da secoli di vita fatta di grandi sacrifici e di poche gioie, durante i quali la gente percorre in maniera lenta e faticosa il duro percorso verso la modernità, senza alcuna prospettiva di futuro migliore, spesso cadendo, anche pesantemente, nel fisico e nell’anima, così come accade con il terribile terremoto del 12 febbraio 1783 (dodici morti e danni per migliaia di ducati) o dopo quello del 1908 (ancora tanta distruzione!), per poi sempre risollevarsi e riprendere con fierezza il proprio dignitoso cammino.
Sono prima Umberto Zanotti Bianco con la sua indagine-denuncia del 1928 e la pubblicazione di “Tra la perduta gente”, e poi Tommaso Besozzi con la sua inchiesta e Tino Petrelli con un realistico reportage fotografico a portare le vicende di Africo e di Casalnuovo all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale, denunciando le penose condizioni in cui versava il paese, “il più povero, il più triste, il più infelice della Calabria”(Norman Douglas), dove “deve essere ben triste tormento abitarvi” (Edward Lear, 1847). Saverio Strati, che ben conosceva le tristi condizioni dell’Africo degli anni trenta per avervi lavorato da giovane come muratore, ne “La Teda” fa dire a “Cicca”, personaggio di spicco del romanzo: “E’ meglio nascere capra che vivere a Terrarossa (Africo)”.
La seconda parte muove, indiscutibilmente, da un avvenimento traumatico, infinitamente tragico e doloroso, ma anche, diremmo noi, provvidenziale, perché cambia radicalmente e, visto col senno di poi, favorevolmente, il destino di “africoti” e “tignanisi”. La data del 15 ottobre 1951, quando la natura si volge contro i due paesi, distruggendoli e costringendoli a un esodo decennale con il definitivo abbandono degli amati luoghi natii, è indelebile, diventata nel tempo “religiosa” commemorazione annuale.
La popolazione è prima alloggiata a Bova, per poi essere smembrata e distribuita nei vari centri della provincia, Reggio (Lazzaretto-Trabocchetto-Condera), Palmi, Fiumara di Muro, Bova Marina (“Seminario”, in particolare gli abitanti di Casalnuovo), prima di approdare all’attuale Africo.
In questo contesto ci piace sottolineare l’abissale differenza di atteggiamento della popolazione con il passato, derivante, molto probabilmente, dalla ferrea volontà di non perdere o smarrire la propria identità storico-culturale. Se prima, infatti, l’uomo africese aspetta con rassegnazione il domani sempre uguale a se stesso non intravedendo alcuna possibilità di reale cambiamento rispetto al passato, dopo i tragici “fatti del ’51” egli, finalmente, prende, socraticamente, coscienza di sé stesso, crede nelle sue potenzialità e nella possibilità di incidere sul proprio destino, chiedendo e pretendendo i suoi diritti, anche se non sempre con risultati positivi.
Il post-alluvione designa un’epoca difficile e problematica. La ricostruzione fisica e morale in marina è lenta, eppure efficace e continua. Sorgono anni di lotte per il lavoro e per la democrazia che contribuiscono a unificare le due comunità, tese ora verso finalità comuni, accaparrandosi un ruolo importante nel movimento sindacale del tempo, diventando, incredibile a dirsi, trattandosi di un paese senza alcuna tradizione associativa, punto coagulatore dei lavoratori della zona ionica, tanto da far dire al prof. Pasquino Crupi, all’epoca (1978) Direttore di “Calabria Oggi”:
“Nel decennio 1968/78 (per non andare indietro) Africo ha rappresentato nella storia del movimento operaio e democratico della provincia di Reggio e della Locride il baluardo più avanzato e più agguerrito della lotta per la democrazia, per l’occupazione, per il lavoro: un nucleo d’acciaio di cui si andava e si deve andare fieri”.
Col tempo e con la scolarizzazione di massa verificatasi a partire dagli “anni sessanta”, “gli eterni profughi”, “gli zingari dell’alluvione”, “i nipotini di Omero”, come, beffardamente, sono stati denominati da Corrado Stajano in una sua pubblicazione del 1979 gli abitanti di Africo Nuovo (“africesi”), riescono ad emergere dal grigiore esistenziale in cui il paese della “perduta gente” era caduto, pervenendo a un dignitoso stato socio-economico tale da mettere i propri figli nella condizione di poter raggiungere i più grandi obiettivi nei più svariati campi della società.
Oggi l’africese si fa apprezzare in ogni campo, realizzandosi con onore e competenza in tutti i settori del sapere, dal sanitario all’amministrativo, dal giudiziario al campo educativo, facendo giustizia di tutti gli archetipi e stereotipi negativi che, immeritatamente, hanno accompagnato questo nostro paese nel corso della sua storia, costruiti e propagandati da quanti, evidentemente, vi si sono avvicinati, senza prima provare a conoscerlo nella sua giusta dimensione. Per giudicare un popolo bisogna conoscerne la storia!

Bruno Palamara
bruno-pal @libero.it

Autore di:

  • “Africo dalle origini ai nostri giorni. Una storia millenaria” Arti Grafiche Edizioni, Ardore, 2003
  • “Il Cognome. Origine, sviluppo, curiosità. Laruffa Editore, RC, 2007
  • “Africo. Cognomi e ritratti” Laruffa Editore, RC, 2011
  • “Don Antonino Pelle Superiore del Santuario di Polsi” di Pelle-Mollica-Palamara Edizioni Nosside, Ardore, RC, 2016