Don Antonino Pelle a Casalnuovo d’Africo Un sociale da evangelizzare

Innanzitutto ringrazio tutti Voi per la partecipazione ad un evento che vuole celebrare come si deve e merita un uomo di Chiesa, quale Don Antonino Pelle nel 50° Anniversario della sua morte, avvenuta nel 1974, una figura straordinaria, un sacerdote di altri tempi, un sacerdote i cui meriti non sono mai stati riconosciuti ed esaltati abbastanza, un sacerdote quasi messo nel dimenticatoio, dal quale è stato portato fuori proprio dal nipote, il nostro Preside Bruno Pelle con quel libro a lui dedicato, “Don Antonino Pelle, Superiore del Santuario di Polsi” e al quale abbiamo partecipato io stesso per la parte riguardante Casalnuovo d’Africo, il paese dove sono nato poco prima dell’alluvione del ’51, e Ugo Mollica. Per me non è difficile parlare di don Antonino Pelle, perché di lui ho cominciato a sentire parlare fin da quando ero io ragazzino e ascoltavo mia madre che raccontava la sua vita da ragazza e spesso il discorso poggiava proprio sul sacerdote di Antonimina che a Casalnuovo d’Africo è stato “Arciprete” per ben dieci anni, dal 1925 al 1935. Era stata battezzata e cresimata proprio da lui.

evento2-don-antonio-pelle-casalnuovo.jpgRicordo che ne parlava con ammirazione e devozione, descrivendolo come una persona straordinaria, impegnato sempre per il bene comune. Ecco, perché, quando Bruno Pelle venne da me e mi parlò del suo progetto di fare un’opera che potesse ricordare e trasmettere alle generazioni future il mirabile esempio e la feconda opera “pastorale” di don Pelle, ho accettato ben volentieri. Ho cercato, quindi, notizie, aneddoti, fatto delle interviste a persone, alcuni novantenni lucidi che lo hanno visto di persona, de visu, operare in quel difficile paese chiamato Casalnuovo. Da tutto ciò è venuto fuori un personaggio eccezionale che ha entusiasmato me e che, ne sono sicuro, leggendo il libro, appassionerà anche Voi. Ma per poter giudicare serenamente e coscientemente la sua grande opera apostolica è necessario fare una breve analisi di ciò che era negli “anni venti” del secolo scorso quel piccolo paese immerso nel profondo Aspromonte, Casalnuovo d’Africo, che, pochi tra i presenti, conoscono e di cui, forse, qualcuno non avrà mai sentito il nome. Casalnuovo è un paese ormai perduto, distrutto dalla disastrosa alluvione del 1951, la stessa che ha distrutto Africo Vecchio, ricostruiti insieme poi ad Africo Nuovo presso Capo Bruzzano. A dispetto della mancata notorietà, però, Casalnuovo ha una sua autonoma e dignitosa storia, multisecolare, una storia avvincente, dipanatasi parallela a quella di Africo, una storia che, per problemi di tempo e in questo contesto, cercherò di evitare di descrivere. Certamente, in quel 1925, la parrocchia di Casalnuovo, la sua prima parrocchia, non era una delle più comode per il giovane Antonino, fresco di nomina sacerdotale, perché il paese viveva una realtà assurda, inverosimile e, per certi versi, inimmaginabile, povero e isolato, immerso com’era nel cuore dell’Aspromonte, forse la comunità parrocchiale più disagiata dell’intera Diocesi. In quegli anni poi Casalnuovo d’Africo aveva pessima fama. Era stata agli inizi del secolo tana del brigante Musolino, addirittura Gerard Rholfs lo aveva definito, insieme al suo capoluogo, “il paese più isolato, e più infelice, della Calabria”. Era, in effetti, un paese sperduto tra i monti, lontano dalla vita civile, senza strade di collegamento, senza edificio scolastico, né luce elettrica, le case erano veri e propri tuguri, un paese tanto disagiato che maestri e maestre rinunciavano all’incarico d’insegnamento per i particolari disagi che si dovevano affrontare per raggiungerlo dato che dalla marina ci volevano ben sei ore di mulo per arrivarci. Sarà Zanotti Bianco, archeologo e filantropo nel 1928 con “Tra la perduta gente” a svelare al mondo intero le incredibili, tragiche e penose condizioni in cui versava Casalnuovo insieme con il suo capoluogo Africo. L’istruzione era assolutamente insufficiente, l’85% della popolazione era analfabeta, non esisteva il medico sul posto, c’era la totale assenza dei servizi sanitari, la nutrizione insufficiente per qualità e scarsità di cibo, frequenti casi di gozzo e di tubercolosi, c’è un'altissima mortalità, soprattutto infantile. Spesso, non avendo altro, erano costretti ad alimentarsi, con ortica cotta e ghiande. Casalnuovo doveva apparire come un luogo dimenticato da Dio e dal mondo, estraneo alla civiltà e protagonista di una vita vissuta al limite del verosimile, una vita di sofferenze, sacrifici e di tremende avversità. Il delicato compito che, coraggiosamente, gli aveva affidato il Vescovo, Mons. Chiappe, era quello di risollevare le sorti di una parrocchia che non viveva un periodo di grande credibilità, credibilità venuta meno perché la Comunità di Casalnuovo nel giro di un ventennio aveva patito, malvolentieri, l’alternarsi, non sempre positivo, di ben sei sacerdoti. Don Antonino Pelle si dimostra fin da subito, di tutt’altra “pasta” rispetto ai suoi predecessori, tanto che, volentieri e per sua scelta, rimane ben due lustri in quella che diventerà la “sua” parrocchia, beneamato e riverito dal popolo di Casalnuovo. E’, quindi, una triste e incredibile realtà quella che si trova di fronte il giovane sacerdote di Antonimina, quando in quel lontano luglio 1925 inizia la sua missione sacerdotale. Ha, però, fin dal suo arrivo la capacità di vincere la proverbiale diffidenza di una comunità, come quella casalinovita, poco avvezza ad aprirsi al forestiero, anzi da qualcuno dipinta come “gente fiera, gelosa e alquanto selvatica”. La gente di Casalnuovo, in effetti a prima vista rude e arcigna, ma, fondamentalmente, onesta e orgogliosa, fin dall’inizio accoglie con favore don Antonino. Sono particolarmente il sindaco Giuseppe Morabito, tra l’altro il Sindaco più longevo, e la famiglia Palamara, che al suo interno ha già don Pasquale Palamara, futuro parroco di Bianco, fin dal suo primo arrivo a non fargli mancare quel calore umano necessario ad un giovane che viene da fuori e da lontano. Il popolo dei fedeli lo chiama semplicemente, e bonariamente, “Arciprete”, pronunciato con quel rispetto che solo una persona dotata di grande carisma, come don Pelle, sapeva suscitare. Don Antonino si mette fin da subito al servizio della gente, di tutta quella gente carica di problemi, anche di sopravvivenza. E lui ascolta, consiglia, vive in mezzo ad essa, condivide gli stessi problemi della Comunità. Sosta spesso nella piazza del paese, dove ha l’opportunità di dialogare con tutti. La gente si affida con fiducia e speranza a quest’uomo di Chiesa, “mandato dalla Provvidenza”. Per Casalnuovo Don Antonino, infatti, è tutto, padre spirituale, sacerdote, medico, maestro, conciliatore. Egli opera in tutti i campi, non risparmia nulla di se stesso, divenendo con la sua straordinaria operosità spirituale e sociale il punto di riferimento dell’intera Comunità. Non si limita, cioè, al solo ruolo proprio del suo ministero sacerdotale, ma si adopera attivamente in ogni campo. E così in un paese che si caratterizza per la cronica mancanza di un medico e di qualsiasi assistenza igienico-sanitaria, il giovane Arciprete espleta, quando serve, anche le funzioni proprie di medico chirurgo, divenendo, praticamente, come ha detto qualcuno, “medico” dell’anima e del corpo di questa povera e prostrata comunità. Il medico vive lontano e non arriva mai in tempo a curare tempestivamente i pazienti. E allora don Pelle, che aveva acquisito con lo studio grandi conoscenze scientifiche, “si veste” da medico e fa da “pronto soccorso”. Interviene, perfino, anche nei casi di quel male endemico come il gozzo, di cui gran parte della popolazione di Casalnuovo è affetta (Zanotti Bianco nel 1928 ne conterà 225 casi) e opera, anche con buoni risultati. Don Pelle, convinto dell’importanza di istruzione e cultura per questa popolazione e in questo contesto, fa anche da “maestro” e avvia allo studio, veicolo di civiltà e di progresso spirituale, parecchi giovani. Tra questi citiamo proprio don Ciccillo Favasuli che gli sarà eternamente grato. Lo straordinario operato di don Antonino sarà riconosciuto anche, e per primo, da Zanotti Bianco, che lo definirà proprio il “buon Pelle”. I due si incontrano, si conoscono e si stimano. L’arciprete pèrora la causa di Casalnuovo, intrattenendo anche una proficua corrispondenza con il Conte, la cui inchiesta nel 1928 ottiene risultati concreti, come qualche struttura sanitaria, l’Ambulatorio dispensario e l’asilo. Ma il fatto che più ha favorevolmente colpito e che dimostra l’affetto, l’abnegazione e il senso di responsabilità del nostro Arciprete è la rinuncia a sedi di parrocchia più comode e confortevoli fatta da don Pelle. Nel 1927, erano passati solo due anni dalla nomina a parroco di Casalnuovo, don Antonino riceve una lettera del Vescovo di Gerace: “Arciprete, Agnana è vacante! Se hai intenzione di abbandonare Casalinuovo, scrivimi subito dopo aver pregato il Signore”. Don Pelle preferì restare fra “la perduta gente”. Gli sembrò opportuno, quasi naturale, rifiutare la proposta di monsignor Chiappe, preferendo rimanere a Casalnuovo, un paese che aveva cominciato ad amare e che aveva ancora estremo bisogno del suo aiuto e del suo sano attivismo. Sarebbe stato per lui un “tradimento” lasciare una popolazione che credeva in lui e nella sua opera di rinascita. Casalnuovo si addolorò per il suo trasferimento avvenuto nel 1935, dopo ben due lustri di buon operato, ma anche don Pelle rimase per tutta la vita fraternamente affezionato a quella “perduta gente”, guardando sempre con occhio benevolo quelli che lui simpaticamente chiamava “i miei paesani”. Potrei citare e ricordare ancora innumerevoli e singolari aneddoti che riguardano la vita di don Pelle nella sua lunga permanenza a Casalnuovo, ma termino questo mio intervento con la consapevolezza e la certezza che Casalnuovo d’Africo o, per meglio dire, Africo sarà sempre grato alla nobile figura di don Antonino Pelle, che, alla pari di Umberto Zanotti Bianco, ha dato lustro e dà lustro alla storia di Casalnuovo. Per questo m’impegnerò con tutte le mie modeste forze, affinché don Antonino Pelle, uno dei grandi sacerdoti del secolo scorso, sia ricordato ad Africo con l’intitolazione di una via o di una piazza del paese intestata a suo nome. Grazie a tutti!

Bruno Palamara